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Joseph Fontano Il fulmine danzante
È considerato il padre spirituale della danza contemporanea in Italia. È stato danzatore, coreografo ma è anche un eccellente formatore: è stato docente per un trentennio all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, Presidente della World Dance Europe e nel 2018 ha fondato l’Accademia Europea di Danza.
Parliamo di Joseph Fontano che incontriamo in veste di autore alla presentazione del libro “Il fulmine danzante” che si è svolta nella sede del Parlamento Europeo di Roma. Un libro che racconta 40 anni di carriera e di vita, un viaggio iniziato a New York negli anni ‘60 per proseguire poi a Roma.
Come nasce l’idea di questo libro? E da cosa nasce il titolo “il fulmine danzante”?
L’idea di scrivere un libro era nella mia testa da almeno 10 anni. All’inizio mi avevano proposto un testo di tecnica, ma non ne ero convinto, perché la tecnica si impara con la pratica non con la lettura. Intanto si avvicinava il mio settantesimo compleanno e volevo dare una grande festa. Peccato che il 7 settembre cadesse in pieno lock down, così, non potendo dedicarmi all’organizzazione della festa decisi di usare quel tempo per iniziare a scrivere il libro. È stata una lunga analisi su me stesso durata due anni. Ho scoperto un Joseph che non conoscevo prima, sono emerse tante cose che forse avevo nascosto anche a me stesso. Ho ripercorso la mia vita da bambino, da adolescente e da adulto, vedendo come poi sia diventato la persona che non avrei mai pensato di diventare. Sono venute a galla cose che anche chi mi conosce bene non immaginava. Ho voluto scrivere tutta la verità, l’evoluzione che ho avuto come essere umano e come artista. Il libro è un viaggio nella mia vita personale e professionale. Per quanto riguarda il titolo in realtà mi è stato “imposto”…io sapevo solo che avrebbe contenuto la parola danza e nasce dalla prefazione di Leonetta Bentivoglio.
Sei considerato indiscutibilmente il padre della danza contemporanea italiana. Quali difficoltà hai incontrato nella divulgazione e diffusione di questo nuovo linguaggio in una città come Roma lontana anni luce dalla realtà e il fermento newyorkese?
Le difficoltà sono state tantissime perché non c’era niente anche se forse questo, da un certo punto di vista, è stato un bene. Sono approdato in Italia nel 1971 in un momento molto fertile per l’apertura mentale conseguente il ‘68, infatti in quegli anni sono cambiate tantissime cose.
Quando sono arrivato a Roma, dove ero solo di passaggio per la Germania dove ero stato invitato da Pina Bausch, sembravo un extraterrestre.
Ho avuto però la fortuna di incontrare le persone giuste. Sono approdato in questo centro di danza, il Cid Centro Internazionale di Danza di Francesca Astaldi, dove ho trovato un gruppo di 12 danzatori provenienti da tutto il mondo tra cui Elsa Piperno, Marcia Plevin, Patrizia
Cerroni, Bob Curtis, Nicoletta Giavotto, José De Vega e Kayo Maki. Con loro abbiamo deciso di montare uno spettacolo. Da li è nato tutto ma appunto con grande difficoltà perchè abbiamo dovuto combattere anche contro il pregiudizio intorno a questo stile di danza diverso.
La danza contemporanea italiana ha avuto negli anni un suo sviluppo autonomo? Con quali caratteristiche?
Si usa un po’ troppo facilmente il termine contemporaneo abbinato a altro: ci sono il modern contemporay, l’hip hop contempoary, il tip tap contemporary solo perché e la danza che si fa nel nostro tempo. Se così fosse anche la danza classica dovrebbe essere definita
contemporanea solo perché la si fa oggi!
Negli anni 70 vi battevate affinchè la politica e i componenti delle istituzioni intervenissero in favore dell’arte, della cultura e della danza in particolare. Quasi 50 anni dopo continuiamo a fare lo stesso. È cambiato effettivamente qualcosa?
Sì sono cambiati i governi! Quando sembrava che finalmente si fosse riusciti ad ottenere qualcosa cambiava il governo e si ricominciava da capo! Ho perso il conto di quanti incontri, quante conferenze, quanto scritto abbiamo prodotto senza ottenere nulla. I politici hanno da sempre usato questo malcontento solo per portare acqua al loro mulino.
Una delle figure di critica che appare maggiormente nelle pagine del libro è quella di Vittoria Ottolenghi. Quanto devi a questa donna?
La chiamavo zia, anche se all’inizio ha scritto cose non lusinghiere su di me. Mi ha persino definito l’onnipresente ossuto! Poi ad un certo punto ha iniziato a guardarmi con occhii diversi. I critici dell’epoca, ad esempio Alberto Testa, non conoscevano veramente la danza contemporanea quindi li abbiamo praticamente presi per mano per illustrargli quello che facevamo. E loro hanno visto anche l’impegno e la serietà che mettevamo nel nostro lavoro ad esempio nel teatrodanza che facevo con Elsa Piperno. Passata questa prima fase con la
Ottolenghi siamo diventati quasi complici nel portare avanti il messaggio della danza contemporanea. C’è da dire che lei era dotata di una straordinaria sensibilità. È stata lei a portarmi al Festival di Spoleto ed in televisione. Mi diceva sempre che ero nel posto giusto al
momento giusto.
Fino a qualche anno fa la critica era fondamentale per il successo di un lavoro. Quanto è cambiata la funzione della critica oggi?
Praticamente i critici non esistono più. Finchè c’è stata la buona fede da parte loro le cose sono andate bene, poi alcuni purtroppo si sono trasformati in direttori di festival…
Nel libro emergono una serie di incontri importantissimi per la tua formazione e per la tua carriera. Tra questi Paul Sanasardo, Pina Baush, Martha Graham, Alvin Nikolais. Cosa hai preso da ciascuno di loro? Quali delle diverse tecniche contemporanee sono più corrispondenti al tuo modo di essere e vivere?
Da Pina Bausch ho imparato che si può rischiare, ed è stato questo che mi ha portato a rimanere in Italia. Martha Graham ha dato movimento al mio corpo, quello che nasce dall’interno, dalle emozioni. Nik ossia Alvin Nikolais mi ha dato invece l’esterno, il movimento architettonico, l’altezza, i livelli, lo spazio e la qualità. E poi c’è Paul Sanasardo che è stato come un padre e lo è ancora oggi che ha 93 anni. Ho avuto l’occasione di rivederlo 3 anni fa a Chicago per il suo compleanno insieme ad una trentina dei suoi vecchi danzatori dei quali io ero il più giovane e ci ha detto “Siete qua perché io vi ho scelti uno ad uno”. Aveva perfettamente ragione!.
Come si è evoluta in tutti questi anni la danza contemporanea?.
L’artista deve esprimere il proprio tempo. Io non ho mai fatto la danza io sono la danza! Bisogna essere quello che si fa. Credo che in Italia purtroppo ci sia una grande omologogazione.
Sei figlio di un’epoca ricca sia economicamente che culturalmente, piena di stimoli e di possibilità. Come vedi il presente delle nuove generazioni, soprattutto per quanto concerne il loro sviluppo artistico? Cosa vuoi rappresentare e cosa vuoi trasmettere ai nostri giovani questo libro?
Vorrei che capissero che si può superare ogni ostacolo. Io ho avuto una situazione familiare molto difficile ed in età più adulta ho affrontato una grave malattia, ma gli ostacoli si possono superare.
La danza ha bisogno di studio, non solo dei passi, ma di tante alte discipline come la musica e l’arte. Quello che manca oggi è una prospettiva, ma questo non dipende dai ragazzi ma dalla direzione che ha preso la società e il mondo in se. La propria strada va cercata ma per farlo bisogna studiare e studiare. Purtoppo c’è una grande omologazione. La cultura e la creatività sono la salvezza dell’umanità.
Dopo una carriera così lunga e ricca cosa ti aspetti ancora dalla danza?
Niente. Non bisogna mai aspettarsi niente da nessuno. La danza sono io quindi mi aspetto di dare qualcosa con la mia arte. Spero che lo spettacolo possa diventare qualcosa alla portata di tutti.
Mi aspetto di vedere giovani che diventano grandi artisti, non solo danzatori, ma anche attori, cantanti, musicisti e che possano esprimere il momento che vivono.
Articolo apparso sul numero 377 di settembre 2022 di DanzaSì
Luana Luciani