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Giego Tortelli “Un corpo in un labirinto senza uscita”

L'intervista
Quando
04/02/2022
Genere
L'intervista

Diego Tortelli con una formazione all’Accademia Nazionale di Danza di Roma corre poi veloce al Teatro alla Scala di Milano. Ha danzato per numerose compagnie italiane e straniere e i repertori d'importanti coreografi come Ohad Naharin, Nacho Duato, Angelin Preljocaj, Gustavo Ramirez Sansano, Jiri Kiliàn, Thierry Malandain, Asun Noales, Goyo Montero, Carolyn Carlson, Ramon Oller, Emio Greco, Pieter Scholten, Olivier Dubois, Richard Siegal, William Forsythe, Lucinda Childse.

Ad oggi è coreografo residente della Fondazione Nazionale della Danza/Aterballetto e a Luglio 2021 sarà ospite a Roma al Festival Fuori Programma diretto da Valentina Marini con una nuova creazione.

 

Diego quando e come si è trasformata la passione per la danza in professione?

Mi sono avvicinato alla danza molto presto, la mia prima lezione di danza è stata a 10 anni e grazie al pieno appoggio della mia famiglia all’età di 15 era già chiaro nella mia testa che questo fosse il mio sogno, ma come moltissimi ragazzi che si avvicinano alla danza c’era anche il grande timore di non farcela, di sentirsi diverso dai compagni di scuola maschi del paese che a quell’età pensano soprattutto al calcio o a divertirsi. Io invece passavo le giornate chiuso in sala alla Studio 76 di Brescia, studiando con la mano stretta alla sbarra, lavorando sul mio corpo per trasformare i difetti, potenziare la tecnica, il fisico e le doti. 

All’età di 16 anni ho fatto l’audizione all’accademia di Roma e sono entrato: questo è stato il primo passo verso un futuro nella professione. Così mi sono trasferito a Nettuno (per realizzare anche il sogno di vedere il mare la mattina appena sveglio) e ogni giorno viaggiavo da Nettuno a Roma per assistere alle lezioni. 

A 17 anni sono entrato alla scuola della Scala a Milano, mi sono quindi avvicinato nuovamente alla famiglia e ho scoperto una città che tuttora è la mia città, il mio “safe place”. Il cambiamento è stato duro. A Roma il ritmo era già severo e richiedeva molto studio, ma era un ambiente molto più accogliente rispetto alla Scuola a Milano. 

L’arrivo in Scala ha determinato per me la nascita di nuovi obiettivi. Ormai era chiaro che per farcela bisognava spingere al massimo, crescere velocemente, migliorarsi, maturare e comprendere che non ci sarebbe stato posto per tutti perchè la danza vive anche di una grande selezione e competizione a volte non necessaria a un’età così giovane. La Scala in due anni mi ha dato moltissimo ma anche tolto molto. In quegli anni lo studio si concentrava prevalentemente sulla tecnica classica per preparare all’ingresso in un corpo di ballo, ma sapevo che quella non era la strada che desideravo per me; volevo sperimentare con il contemporaneo, capire nuove qualità di movimento, sentirmi libero e ammetto di non aver mai raggiunto l’eccellenza tecnica che era richiesta.

Alla Scala però ho anche conosciuto le più grandi amicizie che mi accompagnano ancora oggi e assistito alla magia del talento di danzatori meravigliosi.

A 19 anni sono entrato in una compagnia di repertorio neoclassicocontemporaneo a Valencia, dove tutto è iniziato, e ho danzato coregrafie di Nacho Duato, Ramon Oller, Jiri Kylian… poi non mi sono mai fermato e ogni 3 anni ho usato la mia professione per conoscere il più possibile altri luoghi nel mondo: Chicago, Marseille, Madrid, Barcelona, Munich.

Ora sono tornato a Milano con tanti nuovi sogni da rincorrere.

 

Cosa succede nella carriera di un giovane artista quando viene spinto a lasciare l’Italia?

È difficile rispondere a questa domanda. Sono dell’idea che quando lasci un posto per spostarti in un altro c’è sempre qualcosa che si perde, ma anche tante cose che si trovano. Sono sempre stato affascinato dal cambiamento e l’ho sempre rincorso con grande entusiasmo e quindi non mi sono mai sentito spinto, se non da me stesso, a cambiare e avere l’opportunità grazie alla mia professione di vivere in città meravigliose, conoscere nuove culture, apprendere nuove lingue e ovviamente conoscere nuove visioni sulla danza che cambiano sempre da paese a paese. Tutto ciò mi ha arricchito. 

Se un giovane danzatore mi dovesse chiedere se rimanere o andarsene dall’Italia non so se mi sentirei di consigliare qualcosa. Sarei troppo referenziale e non è buono.

Bisogna scegliere di vivere dove e come si desidera. Il nostro Paese di origine è importante, ma in realtà è la danza che ci guida e sono le opportunità del mondo della danza che decidono in un qualche modo dove ci spostiamo. Il sogno da realizzare deve essere il motore di ricerca.

 

Cosa hai lasciato artisticamente in Italia che non sei riuscito a portare all’estero?

La mia famiglia. Allontanarsi così presto fa sì che devi maturare velocemente: in questo percorso di crescita commetti tanti errori e impari a risolverli da solo. Ho avuto la fortuna di avere una famiglia meravigliosa che ha sempre creduto in me e mi è sempre stata accanto, ma vivere altrove ti fa perdere il giorno per giorno. Cresci separato da loro nella quotidianità, sei forzato a trovare te stesso molto prima. In Italia la bellezza regna ovunque, c’è un costante gusto estetico che aiuta alla creatività e infatti all’inizio della mia carriera di coreografo ho sentito la necessità di tornare in Italia e farmi assorbire nuovamente dalla mia cultura, dal suo fascino e trasferirla nel mio lavoro.

 

E all’estero cosa hai lasciato?

All’estero ho lasciato tanti bellissimi ricordi di spettacoli meravigliosi, giornate di sudore in sala con grandi e piccoli coreografi, grandi amicizie. All’estero si lascia anche l’amore che gli altri sentono per l’Italia. Ho imparato ad amare il mio Paese grazie al fascino che suscita all’estero e agli immensi complimenti che riceviamo. Ciò che vorrei portare dall’estero in Italia è l’apertura a ciò che definiamo “diverso”, all’inclusione in ogni sua forma. Penso che su questo dobbiamo ancora crescere molto come Paese; non pensare che il concept “diversity and inclusion” sia qualcosa da temere, ma al contrario qualcosa da abbracciare per una crescita anche interna e soprattutto più contemporanea del mondo. 

 

Nel 2017 hai creato Bella Addormentata per il Nuovo Balletto di Toscana. Come è stato lavorare al fianco di Cristina Bozzolini?

Partiamo dal fatto che io amo alla follia Cristina Bozzolini. Trovo che sia una persona meravigliosa, una grande artista e una grande direttrice nonché una delle persone più influenti, da molto tempo, nel panorama della danza italiana. Grazie a lei è nato il “made in Italy” della coreografia dando le prime opportunità a coreografi che hanno dato moltissimo alla scena italiana come Mauro Bigonzetti, Fabrizio Monteverde, Philippe Kratz e tanti altri e che tutt’oggi continua a credere nel talento di “nuovi voci”. 

Cristina ha avuto il coraggio di credere in me e di commissionare una Bella Addormentata contemporanea ad un giovanissimo coreografo senza molta esperienza. Fino a quel momento avevo creato solo lavori brevi di 15 minuti e lei mi ha accompagnato passo per passo con grande entusiasmo e tanti consigli per creare il mio primo “full-evening” della durata di un’ ora e venti per una compagnia di giovani danzatori di grandissimo talento e preparazione tecnica. È stato un grande challenge, ma mi sono sentito sicuro e appoggiato fin dal primo momento. Grazie a Cristina ho avuto la possibilità di dar sfogo alla mia voce e insieme, mano nella mano, abbiamo affrontato un percorso meraviglioso che ci ha portati ad una tournée con più di 30 spettacoli in tutta Italia.

 

Ci racconti come è nato e le fasi successive del tuo progetto indipendente a Monaco?

Con il tempo, tra una commissione e l’altra ho sentito la necessità di creare per me stesso un mio “playground” personale, nel quale sperimentare e anche sbagliare prendendomene tutte le responsabilità. Da questa necessità è nato un mio progetto indipendente a Monaco, una città alla quale mi sono legato molto negli ultimi 5 anni grazie al rapporto con Miria Wurm, mia socia e drammaturgo in questo percorso di ricerca. Ci ha uniti il fatto che per anni abbiamo entrambi collaborato con il coreografo Richard Siegal e quando ho deciso fosse il momento di smettere di ballare per concentrarmi a pieno sulle mie creazioni é arrivata l’opportunità di iniziare a creare un gruppo di ricerca personale a Monaco grazie all’appoggio di un network di founders e sovvenzioni da parte della città. Negli ultimi 3 anni abbiamo creato 3 lavori: Shifting perspective, Snow Crash e l’ultimo, con prima il 18 Giugno, dal titolo Hole in Space. Il progetto a Monaco mi permette di collaborare con gli artisti e i danzatori freelancers che ho conosciuto negli ultimi anni ma anche con “new entry”. Monaco è il mio parco giochi che mi permette di costruire una mia estetica e potenziare, a piccoli passi, la mia voce.

 

Ad oggi definiresti le tue creazioni delle risposte alle tue esigenze artistiche o al periodo che stiamo vivendo? 

Penso sia importante che entrambe le cose siano parte fondamentale di una creazione, soprattutto quando si tratta di arte contemporanea.

Non penso di essere un coreografo che si nutre solo ed esclusivamente di esperienze personali. Conoscere e riuscire a toccare anche temi che rappresentano il periodo in cui viviamo credo sia nostro compito.

Chiaramente come autore c’è sempre una parte di me in ogni lavoro, ma mi piace anche vivere, conoscere e quindi il riferimento al periodo che stiamo vivendo è sempre parte fondamentale del risultato finale sulla scena. Penso che per toccare il pubblico bisogna riuscire anche a rendere un messaggio, o una emozione, toccabile anche per loro e non solo esclusivamente personale mia. Che possano riflettere nel lavoro e sul lavoro, provare qualcosa anche se a volte può essere solo un pensiero, una immagine, un colore, un evento.

 

La danza contemporanea in Europa. Dove effettivamente credi ci sia stata una vera evoluzione?

Penso che l’evoluzione sia costante nell’arte e la bellezza dell’arte è che non ha confini, siamo influenzati costantemente da ciò che succede nel mondo. Ci sono autori in tutta Europa che in ogni creazione apportano qualcosa di nuovo. La Germania, dato il grande investimento economico dello Stato nella cultura, permette una produttività elvata e quindi una costante crescita, ma lo stesso si può dire anche per Olanda e Svezia. Paesi come l’Italia, la Spagna e la Francia investono meno sulla danza, ma sono anche Paesi di grande bellezza e gusto estetico e quindi anche gli autori che provengono da questi Paesi trovano spesso una evoluzione all’interno della difficoltà produttiva apportando così qualcosa di nuovo.

 

Il tuo laboratorio “il Labirinto di Dedalo” che tipo di percorso è ma soprattutto a chi si rivolge?

Il “Labirinto di Dedalo” è un percorso che si rivolge soprattutto a giovani danzatori e a professionisti che vogliono potenziare i propri strumenti per affrontare un percorso creativo in sala. Mi piace l’idea di usare la mia esperienza sul corpo e la mia ricerca per trasmettere la fragilità e la forza del corpo, la sua potenzialità massima e il limite. Un corpo che è sempre strettamente connesso alla mente e che prende decisioni, un corpo che sia immaginazione e sentimento, ma anche macchina meravigliosa. Il “labirinto di Dedalo” aiuta a perdersi e ritrovarsi nell’atto creativo, nell’improvvisazione, per aumentare la conoscenza di se stessi e aiutare il danzatore ad essere un foglio bianco su cui il coreografo può scrivere insieme all’interprete.

 

Oggi coreografo residente presso la Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto che cosa puoi raccontaci?

Grazie al direttore Generale Gigi Cristoforetti e alla direttrice di Compagnia Sveva Berti sono 3 anni che collaboro con la compagnia e la Fondazione come coreografo residente. Questa è una di quelle situazioni nella vita il cui la realtà è meglio del sogno. Grazie a loro e  anche ai 16 meravigliosi danzatori della Compagnia ho avuto la possibilità di sperimentare e crescere in molti processi creativi accompagnato da un forte appoggio artistico e produttivo. Mi hanno permesso di sperimentare vari formati di spettacolo, tra cui chiaramente il teatro, ma anche il site-specific, la performance art, l’installazione, il dance-film. Aterballetto è stata negli ultimi 3 anni, ed è tuttora, la mia casa, il luogo in cui posso creare con un chiaro percorso e costanza e in cui mi è stato permesso di far crescere il mio “linguaggio sul corpo” grazie a danzatori di grande talento, tecnica, bellezza ed espressività. Con loro imparo ogni giorno qualcosa di nuovo su me stesso e sull’estetica del mio lavoro, ma anche sugli aspetti produttivi che stanno dietro ad ogni creazione, l’attenzione per il pubblico ecc… Spero che questo rapporto si prolunghi il più possibile nel tempo, soprattutto perché trovo che per continuare a re-inventarsi e crescere ci sia la necessità di avere alle spalle una struttura produttiva e artistica che in ogni progetto ti mette di fronte ad una nuova spisa con grande stima e confronto. 

 

Come hai vissuto il blocco dell’attività durante la pandemia?

Il periodo della pandemia per me è stato prima di tutto un momento di stacco e riposo. Sono tornato a godere della “solitudine” dei miei pensieri e mi sono concentrato molto sui miei valori, ho trovato nuovamente spazio per me stesso, per l’autoanalisi. Poi, in una fase successiva, è stato un momento di riflessione sul mio lavoro, su come la danza dovrà reagire e cosa sarà importante dare al pubblico al nostro rientro. Da queste riflessioni sono nate le idee per due creazioni per Aterballetto “Another Story” e “Preludio”, e una per il gruppo a Monaco “Snow Crash”. Grazie sempre a Aterballetto abbiamo anche iniziato a sperimentare, con l’appoggio della video-maker Valeria Civardi, il compositore Federico Bigonzetti e i 16 danzatori della compagnia, sulla potenza della danza in video: da qui è nato “1 meter closer” la cui Prima è stata trasmessa dalla RAI in occasione della giornata interazione della danza. Grazie agli sforzi della Fondazione Nazionale della Danza e del Direttore Gigi Cristoforetti non ci siamo mai fermati e abbiamo continuato a produrre anche a distanza, preparandoci all’apertura con un ampio ventaglio di lavori che possono toccare diverse necessità e luoghi.

 

Come definiresti i danzatori delle tue creazioni?

Mi piace essere accompagnato nelle mie creazioni da danzatori che conoscono il proprio corpo grazie a una forte preparazione tecnica che può essere sia classica che contemporanea, che si conoscano come persone (o almeno in quel momento della loro vita), che sappiano cosa hanno da offrire nelle loro potenzialità ma allo stesso tempo che siano in costante crescita e sperimentazione personale. Che amino la vita e la cultura, che sappiano sorridere e piangere, amare ed anche odiare, poiché l’essere umano è tutto questo. Che entrino in sala con la necessità personale di buttarsi in nuovi immaginari e con la curiosità di conoscere nuovi orizzonti. Negli ultimi 3 anni, sempre per la Fondazione, ho realizzato 3 creazioni per artisti diversamente abili e trovo che il tema di diversity and inclusion sia fondamentale per la crescita della danza nel mondo, ma sempre per una preparazione professionale diversificata. 

 

A luglio a Roma al Teatro India per il Festival Fuori Programma diretto da Valentina Marini con CORPI / BODIES. Qualche anteprima? 

Sono entusiasta e felicissimo di tornare a Roma e soprattutto di farlo, ed è la prima volta che accade, con una serata interamente firmata da me per Aterballetto. Per me è un sogno diventato realtà e trovo che sia molto emozionante che accada nella città in cui il mio percorso professionale è iniziato. Grazie a Valentina Marini ho questa grande possibilità: vivere un momento speciale e indimenticabile. Inoltre non sono mai stato a Roma con un mio lavoro. 

CORPI / BODIES è un programma per 8 danzatori che si diversifica in 4 lavori:  “Maudit” un solo per Sandra Salietti, meravigliosa danzatrice e mia ex collega dal Balletto di Marsiglia; “Sonata in Trio”, un brano per 3 interpreti che mi hanno accompagnato in questi 3 anni all’Aterballetto e con cui        sono cresciuto artisticamente: Daniele Ardillo, Clement Haenen e Martina Forioso; “Another Story” un duetto nato dal primo rientro dal lockdown per Ina Lesnakowski e Hélias Tur-Dorvault, un processo creativo meraviglioso grazie alla grande sensibilità e maturità artistica. Un pezzo sul gesto dell’abbraccio e le sue declinazioni. Chiudiamo la serata         con “Preludio”, un pezzo per cinque interpeti: Sandra Salietti, Hélias Tur-Dorvault, Ivana Mastroviti (danzatrice potente dell’Aterballetto e di una grande forza interpretativa), Clement Haenen e Roberto Tedesco che lascerà la Compagnia a fine stagione per inseguire nuovi orizzonti. “Preludio” è una creazione sul credo del corpo, su un nuovo inizio ed è accompagnato dalle musiche di Nick Cave. 

La serata è anticipata da uno scambio con il pubblico in cui sarò accompagnato da Gaia Clotilde Chernetich e dalla danzatrice Sandra Salietti in cui racconteremo e condivideremo con loro la nascita del processo creativo. 

Massimo Zannola