Ci sono spettacoli che intrattengono, altri che commuovono. E poi ce ne sono alcuni rari, preziosi, che restano. Che non si esauriscono con il buio in sala, ma continuano a vibrare dentro lo spettatore come un’eco lunga, necessaria.
“27”, produzione dell’Oda Dance Company, andata in scena sabato 24 maggio al Teatro Il Moderno di Agliana, è uno di questi. Un’opera che non si limita a raccontare: scava, accarezza, scuote. È danza che si fa elegia, corpo che si fa parola, silenzio che dice tutto.
Ispirato al mitico e tragico Club 27 — Amy Winehouse, Janis Joplin, Kurt Cobain, Jimi Hendrix, Jim Morrison — lo spettacolo è molto più di un tributo: è un atto d’amore, e insieme una riflessione sul prezzo della creatività, sulla fragilità che spesso si nasconde dietro al genio, sulla luce che abbaglia e sull’ombra che consuma.
La scrittura coreografica porta la firma di Ermanno Sbezzo e James Sutherland, due voci differenti e complementari che si intrecciano in una narrazione fisica e viscerale.
Con una sensibilità rara, Sbezzo costruisce movimenti che sembrano nati non da un’idea, ma da un’urgenza interiore. Gesti che non decorano, ma dicono. Coreografie che toccano corde intime, profonde, universali. Il suo linguaggio coreografico è teatrale, televisivo, cinematografico: sa raccontare storie con una scrittura scenica che supera i confini della danza tradizionale, aprendo spazi visivi e drammaturgici che parlano a ogni tipo di spettatore.
È un artista capace di ascoltare i suoi interpreti, di guidarli con mano sicura e cuore aperto, tirando fuori da ciascuno verità, intensità, presenza scenica. Le sue creazioni parlano il linguaggio dell’essenziale: nulla è superfluo, tutto vibra. La sua arte non cerca l’effetto, ma la sostanza. E colpisce, con grazia e potenza, là dove la parola non arriva.
Al termine della sezione coreografica firmata da Sbezzo, la danza si arresta improvvisamente e lascia spazio a un momento di pura sospensione sonora. È la chitarra elettrica di Giuseppe Guglielmino a prendere il comando, con un assolo che vibra nello spazio teatrale come un respiro profondo, un richiamo ancestrale. Le sue note evocano un paesaggio interiore complesso, fatto di luci tremolanti e ombre inquietanti, di fragilità e forza. È una pausa che non spezza il racconto, ma lo amplifica, offrendo allo spettatore un tempo per sentire, per lasciarsi andare, per prepararsi all’urto successivo.
A completare la visione, James Sutherland prende il testimone coreografico con il suo tocco personale, alternando movimenti sinuosi, quasi carezzevoli, a gesti improvvisi, taglienti, a tratti isterici. Una danza fatta di contrasti e tensioni, che si muove tra l’intimità e il grido, tra l’istinto e il controllo, amplificando l’impatto emotivo dello spettacolo. Una scrittura fisica che inquieta, rapisce, trascina.
Il cast — composto da giovani danzatrici cariche di verità e forza espressiva come Rebecca Maguolo, Micol Marchetto, Matilde De Nardo, Lucrezia Aiuto, Ilaria Mura, Irene Casini e Sara Del Bolgia — dà corpo e anima a questi personaggi simbolici. Le loro interpretazioni sono intense, sincere, a tratti strazianti. Nulla di imitato, nulla di artificiale: è materia viva che danza. È empatia che si fa forma.
La colonna sonora, costruita sulle tracce immortali dei grandi artisti evocati, non è semplice accompagnamento, ma parte integrante della scrittura scenica. Ogni nota è storia, ogni voce è ricordo, ogni silenzio è ascolto. La danza si innesta sulla musica con una naturalezza impressionante, come se quei corpi fossero da sempre destinati a muoversi su quelle melodie.
Anima e direttrice artistica del progetto, Sabrina Scatizzi guida con passione, visione e ferma determinazione una realtà semiprofessionale destinata a crescere. Il suo impegno va oltre la semplice direzione artistica: è una missione culturale e sociale, un vero e proprio atto di responsabilità verso la danza contemporanea e i giovani talenti. Con lungimiranza e tenacia, crea spazi di espressione autentica e mantiene intatta una qualità artistica rara, capace di resistere e prosperare anche nelle difficoltà di un contesto spesso complesso. La sua presenza, essenziale e discreta, è la forza motrice che alimenta ogni passo di questa compagnia.
La qualità di “27” va sottolineata con fermezza: un’eccellenza rara, che sorprende e, talvolta, lascia un velo di amarezza, perché troppo spesso manca persino nelle produzioni sovvenzionate dallo Stato o nelle compagnie più strutturate e affermate. Qui, ogni dettaglio è curato con meticolosità, ogni scelta si rivela coerente, ogni gesto è autentico e profondamente sentito.
Questa realtà merita uno sguardo attento: un luogo dove passione e disciplina si fondono, dove la professionalità convive con un’atmosfera familiare e in cui si respira la volontà di costruire un percorso duraturo e sincero. Un’opportunità preziosa non solo per i giovani talenti, ma anche per un pubblico in cerca di una danza che sappia parlare davvero al cuore.
“27” è uno spettacolo che attraversa lo spettatore. Lo guarda negli occhi, gli parla sottovoce e gli lascia qualcosa addosso. È un viaggio nella bellezza e nel dolore, un dialogo muto con le nostre fragilità, un invito alla riflessione in un’epoca che spesso ha fretta di dimenticare.
Alla fine dello spettacolo cala un silenzio profondo. Un istante sospeso, in cui il pubblico, visibilmente commosso, resta immobile, quasi trattenendo il respiro. È il silenzio di chi ha appena assistito a qualcosa di autentico, potente, necessario.
Un lungo, sentito applauso si leva spontaneo nella sala, un riconoscimento sincero che celebra la qualità e l’intensità di ciò che si è appena vissuto.
E proprio quando sembra che tutto sia finito, ecco che una scarica elettrica attraversa l’aria. Le prime note di Smells Like Teen Spirit irrompono improvvise, come un grido liberatorio. Le luci si accendono e si rincorrono in un vortice di ombre e bagliori taglienti, pulsanti, vivi. I corpi si ribellano alla quiete, si scuotono in un ultimo, furioso grido fisico. È estasi e lotta, una corsa cieca tra il bisogno di esistere e il destino che consuma.
Non è solo un finale. È una resurrezione. La voce di chi rifiuta di spegnersi, anche nel buio più profondo. L’eco di un’identità che esplode ancora una volta, prima di svanire.
Il pubblico resta senza fiato, sospeso in quella vertigine inattesa. Poi cala un silenzio vero, profondo, che resta dentro.
Infine, come un’onda trattenuta troppo a lungo, esplode un applauso ancora più lungo, intenso e liberatorio. Un’ovazione che travolge la sala e celebra non solo la qualità artistica, ma la verità emotiva dello spettacolo. Un applauso che è anche un grazie: per la visione, il coraggio, la passione.
“27” ha lasciato un segno indelebile. E il pubblico lo ha restituito con la forma più sincera che esista: un applauso che sembrava non voler finire.
Uno spettacolo così merita di essere ammirato e scoperto dal pubblico di tutta Italia.